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Eso Peluzzi ” Il paese dell’anima”

Per l’occasione dell’apertura del nuovo spazio le Opere Sociali, con il contributo della Fondazione A. De Mari Cassa di Risparmio di Savona, hanno realizzato un catalogo dal titolo “Eso Peluzzi – Il paese dell’anima”, curato dal prof. Franco Dante Tiglio, che approfondisce in modo esaustivo l’attività di Peluzzi a Santuario, con ampi riferimenti a lavori svolti in altri momenti della propria vita.
Di seguito un breve estratto dal catalogo.

Il nucleo centrale della collezione d’arte dell’Istituto Opere Sociali di N. S. di
Misericordia, oggi esposta al Santuario, nel salone che fu già il refettorio dell’Ospizio dei poveri, è costituito da 10 dipinti, 2 pastelli e 10 disegni donati da Eso Peluzzi all’Istituto in data 10 marzo 1969. Insieme alle 22 opere della donazione, sono esposte altri undici lavori del medesimo Autore, 7 di proprietà della stessa Istituzione, 2 provenienti dalla Civica Pinacoteca di Savona (“Minestra dei poveri”, pastello del 1927 e “Paesaggio delle Langhe”, olio su tela del 1938) e due da collezioni private (“Veglia funebre nell’Ospizio”, olio su tela del 1920, e “Autoritratto”, pastello del 1924).
Le 22 opere della “donazione” furono selezionate dall’Autore stesso con l’intento di documentare i momenti più significativi della sua attività svolta nel borgo del Santuario, a contatto con la realtà dell’infanzia abbandonata e degli anziani ricoverati all’Ospizio dei poveri. “Questa è la sede dove è nata la mia ispirazione e si è formata la mia maturità artistica” – aveva scritto nella lettera del 28 gennaio 1969, con cui noti. cava all’ing. Giulio Taramasso, all’epoca Presidente dell’Istituto, l’elenco e la documentazione fotografica delle opere oggetto della donazione. Qualcuna di queste opere Peluzzi le aveva ricomprate dai suoi collezionisti, ritenendole indispensabili per la completezza della collezione.
Nel loro insieme, effettivamente, esse costituiscono uno schematico diagramma, che inquadra le fasi emblematiche dell’arte maturata da Peluzzi nel corso della sua permanenza al Santuario.
Qui l’artista ha lavorato freneticamente al servizio di un’idea che lo assillava: comprendere e approfondire la natura del rapporto fra la vita dell’uomo e la realtà della morte.
Per la precisione, la sua ricerca ha riguardato non il “problema filosofico” implicito in tale relazione, ma i modi con cui l’essere umano la vive e la subisce. Non è la stessa cosa sapere che la vita è destinata a finire e vivere, invece, nella consapevolezza di avere la morte ad un passo da sé.
Fu la devastante esperienza della guerra, dove aveva assistito alla caduta dei principi fondamentali della vita, a provocare in Peluzzi un tale sconcerto morale e spirituale, da offuscare completamente il significato del rapporto fra la vita e la morte e da fargli sorgere dei dubbi sulla stessa natura dell’essere umano.
In “Funerale al fronte”, dipinto nel 1917, egli aveva appunto rifuso tutta la sua esecrazione nei confronti di quella macabra e assurda esperienza.
Sopravvissuto a quella sconvolgente prova, Peluzzi approda al Santuario con lacerazioni interiori così profonde, che, di fatto, avevano posto al centro della sua ricerca i problemi essenziali della condizione umana. A questo punto, egli aveva bisogno di trovare un contrappeso per riequilibrare il vuoto di valori provocato dalla lunga parentesi di follia collettiva; aveva bisogno di verità, di ritrovare se stesso, di risposte certe, di riposizionare l’uomo e le cose nella loro realtà, di verificare se i valori della vita contavano ancora tanto da legittimare le ragioni primarie dell’esistenza. Aveva soprattutto bisogno di ricuperare una dimensione più umana del rapporto fra la vita e la morte.
Quando Peluzzi arriva al Santuario è del tutto ignaro della svolta che la visita all’Ospizio dei poveri avrebbe provocato nella sua arte e nella sua stessa vita.
All’interno del cinquecentesco edificio, che ospitava gli anziani ricoverati, egli si trova nuovamente dinanzi alla realtà della morte; non quella spietata e violenta, che al fronte aveva fatto scempio di giovani vite, ma a quell’evento naturale, integrato nel più vasto disegno della legge universale della Natura, in cui vita e morte formano una naturale e indissolubile unità, come due momenti esistenziali inscindibili.
L’immagine della morte, che faceva da sfondo alla vita dei vecchi nell’Ospizio, non solo aveva deposto l’aspetto tragico e violento, che aveva mostrato in guerra, ma era controbilanciata dai fondamentali valori della carità, della speranza, della fede, per cui si inseriva nell’esistenza dell’uomo come una sua soffice e ineluttabile conclusione, nel rispetto della dignità umana.
La realtà dell’Ospizio rimuove definitivamente il senso di orrore connesso all’idea della morte, nonché quella sfiducia, che si era radicata in Peluzzi nei confronti dell’uomo, dopo la insana prova che questi aveva offerto di sé.
La sua adesione al mondo dell’Ospizio è immediata.
Qui egli incontra una umanità messa a nudo dalle peripezie della vita. Incontra l’uomo rimasto solo, nella sua naturale integrità, e riscopre la forza dell’animo umano, di cui aveva smarrito il senso. Recupera il significato dell’esistenza fra coloro che, apprestandosi a staccarsi definitivamente dalla realtà della vita, potevano considerarsi dei “puri” di spirito.

Franco Dante Tiglio